La corporificazione degli archetipi

La storia documentata, quella che inizia nel II secolo avanti Cristo (qualcuno sostiene nel VI ma sembra ipotesi irragionevole) è caratterizzata da un fenomeno che vale la pena di approfondire, o almeno notare. Due esempi.

Narra il mito come, nel VI secolo a. C., Laozi deciso ad abbandonare il mondo si incamminasse verso occidente. Giunto al passo di Han’gu incontrò Yin Xi che lo custodiva. Per proseguire fu costretto a dettare il Daode jing. Solo conclusa la cinquemillesima parola, Yin Xi lo lasciò andare.

In epoca Han, Laozi, santificato, ritorna. Compare a Zhang Daoling nello Shandung e gli consegna scritti e insegnamenti. Nasce la "Ecclesia" (come la chiama Schipper) dei Maestri Celesti, che si strutturerà in una ricca serie di liturgie, cerimonie, forme istituzionali, con vescovi, parroci, confessioni pubbliche, remissione di peccati, inferni, paradisi, santi, etc.. Ha la caratteristica singolare di possedere un ordinamento estremamente burocratico, com’è nella cultura e nel carattere cinese, sino a fornire documenti molto precisi, con certificati che dovranno servire per parlare con spiriti e demoni o, dopo la morte, per ottenere privilegi e posizioni particolari all'interno dell'impero celeste.

Spostiamoci all'estremo del mondo. Ricorda Winkler come al tempo dell’equinozio la più evidente immagine astrale, la croce, fosse visibile nel cielo di Babilonia per scomparire al solstizio. Era questa la Conclusione, per antonomasia. Nei documenti si mette la croce per indicare che lo scritto è finito. Ultimo segno grafico della scrittura, ha per nome "adempimento, fine", cioè TAM o, secondo la pronuncia babilonese accolta anche dagli ebrei, TAW. Il mito annuale del dio si conclude al termine dell'orbita col "dio appeso alla croce". 

Più o meno alla stessa epoca dell'incontro di Zhang con Laozi, sulle rive del Mediterraneo, in una certa città, su un monte stabilito, si crocifigge un uomo divino. Nasce il cristianesimo, e nel tempo diventa anch’esso chiesa, con liturgie, cerimonie, gerarchie e certificati. Anche questa gestisce burocraticamente il mondo celeste, doppiando ovviamente l'impero che meglio conosce, il bizantino.

Cosa accomuna due fenomeni così lontani? Cosa li collega a tutta una serie di altri eventi?

In entrambi i casi, un mito, un insegnamento iniziatico, viene condotto nella storia. Da esoterico diventa essoterico. Da struttura fuori dal tempo, si fa avvenimento, con una certa data, una certa geografia, e genera conseguenze sociali e politiche che si inseriscono nell'ordinamento umano. Cerchiamo di capire.

Farò un’affermazione: un mito è sempre un simbolo "iniziatico", se con questo intendiamo che permette, almeno in senso teorico, di passare dal nostro stato attuale ad uno diverso. Proseguo, sostenendo che in tal caso un mito non può che essere "esoterico".

Occorre una definizione di "esoterico" ed "essoterico", per circoscrivere il campo semantico di queste divagazioni.
Mi servirò di un esempio di Sohrawardî.  Il grande teosofo iranico insegnava che si danno tre gradi.

  • La certezza teorica (’ilm al-yaqîn), l’"essoterico": si sa che il fuoco esiste, si è sentito parlare del fuoco e si è inteso cosa sia.
  • La certezza oculare (’ayn al-yaqîn), l’"esoterico": si vede il fuoco, se ne è testimoni.
  • La certezza personale realizzata (haqq al-yaqîn) l'"esoterico dell'esoterico" si è bruciati dalle fiamme, si è diventati fuoco.

Un mito, una leggenda, un qualunque insegnamento iniziatico, ci deve permettere di passare dal primo al secondo livello, dal punto in cui abbiamo sentito "parlare di", a quello in cui "vediamo il".

Tuttavia è possibile un'operazione perversa che inverta il percorso, più consueta, praticata con indifferenza e vaga presunzione. Consiste nel voler spiegare, rendere comprensibile, giustificare il mito. Ci si pone di fronte al racconto, al simbolo e si ragiona, si descrive il suo significato. Perlopiù queste traduzioni sono di tipo etico o sociale. Oggi spesso interviene la sessualità. Nascono teologie o teorie filosofiche, psicologie e metafisiche da strapazzo.

Sfugge che con la traduzione si è scesi dall'esoterico all’essoterico, il mistero ridotto al vivere quotidiano dell'uomo biologico si è cristallizzato, fissato in un'immagine sterile. È morto. Tuttavia lo si voleva accettabile, possibile, perciò lo si è inserito nella storia e di questo si è soddisfatti.

Laozi, un uomo che ha fatto carriera nel mondo celeste, si presenta a un eremita in un giorno, in un posto, definiti. Gli consegna leggi, regole di vita, come sempre avviene. Il mito diventa storia, la storia di un incontro, raro, inconsueto, ma pur sempre un incontro tra uomini.

L’insegnamento iniziatico diventa etico, comportamentale. Sarà regolarmente trascurato, ma rituali appropriati ricondurranno il peccatore, l'uomo normale, alla speranza di un riscatto, solo che reciti una formula o compia certe penitenze. Dica il nome di Amithaba cento, mille volte, e l’ottuplice sentiero si aprirà di fronte a lui, spontaneamente, senza sforzo. Oppure reciti il rosario. Si commuova per quel misero crocifisso, né implori l'intercessione, segua qualche comandamento ragionevole, risalirà in cielo con lui, come i taoisti cavalcando il vento.

Si manifesta sempre un obiettivo miserabile in queste operazioni. Quando, come insegna Dumézil, Varuna e Mitra diventano Romolo e Numa, e l’Orbo e il Monco, Odino  e Tyr, si trasformano in Coclite e Scevola, lo scopo è chiaro. Roma ha diritto all'impero perché i suoi eroi sono gli dei stessi degli Ariani, apparsi nella vicenda terrena a confermarlo.

Quando, sempre in Occidente, Eracle si fa santo nella Leggenda Aurea con Hermes e l'intero Olimpo, Iacopo di Varazze mira anch'egli a uno scopo meschino: trasmettere messaggi di fiducia e pacata obbedienza a un popolo turbolento e troppo avido di fantasie pericolose. Il mito si fa storia, la storia è cosa di uomini, gli uomini la possono controllare.

Talvolta qualcosa sfugge, ci vuole tempo ma alla lunga si domina. Si pensi al pellegrinaggio, purissimo simbolo del più alto esoterismo. Ricordiamo con nostalgia il più bello e fantastico, quello che volgeva verso san Giacomo di Compostella. Il pellegrino aveva diritto all’insegna di una conchiglia, una "capasanta", in francese "mérelle", piccola madre. Fu detto "via lattea" e trapuntato di villaggi dal nome stellare. Si concludeva in Galizia, ancora un richiamo alla "galassia", "gala", il latte. Terminava a un passo da Finisterre, la fine della terra, la fine di ogni viaggio mondano.

Sembra che i Templari lo stimassero molto, ne curassero le strade, la loro sicurezza, provvedendo di ripari i camminatori solitari che andavano a cercare pace e salvezza presso la tomba dell’Apostolo decapitato. Tuttavia un pellegrinaggio prevede un luogo sacro e una via prediletta, non si può inventare o si riduce a un girovagare a caso, nella confusione. Invece di un movimento santo, torna ad essere specchio della vita profana immersa nel caos della mutevolezza insensata. Per camminare da pellegrini occorre una direzione, una guida. Il caos deve essere ordinato da una geografia particolare che tracci mappe privilegiate con i percorsi da suggerire, perché utili, e quelli da scartare, inutili e dannosi.

Di tutto ciò si è persa memoria e capacità. Non esistono più geografi, tracciatori di piste, e non risultano luoghi adatti, segnati da stelle miracolose. Del pellegrino è rimasta solo la fatica, la sofferenza e il timore, mentre è scomparsa la speranza che veniva dall’avere un luogo in cui andare, o almeno sperare di giungere. Un luogo che sciogliesse dal corpo affaticato le lunghe ore di sforzo, dalla mente l’instancabile, noiosa, continua e diabolica ridda dei pensieri involontari e ansiosi. Sembra ormai un miraggio il risultato che testimoniò sul cammino di Santiago uno sconosciuto fortunato:

Qui ho lasciato il mio bastone da viaggio,
qui riposo da una lunga strada.
Là si conclude il mio pellegrinaggio;
dormo tranquillo, senz’ansia del domani.   

A tutto ciò si è sostituito il turismo, di norma "intelligente", con le sue guide preziose, le agenzie di viaggio che garantiscono esperienze fruttuose e scoperte mirabili. Sarà una vacanza, cioè come dice l’etimo una mancanza, una perdita, non un guadagno. Avverrà mai che alla fine di uno di questi viaggi si esca gridando come Hallâdj "Ana’l-Haqq", io sono la Verità!, presi da santa follia? Nemmeno lo si desidera in realtà, si vuole essere saggi, anzi sapienti. Dobbiamo distinguere tra sapienza essoterica e sapienza esoterica.

Vediamo la prima: la sapienza essoterica mi sembra che più che altro rappresenti un ruolo di tipo normativo. Il suo paradigma più noto è evidentemente Salomone. Il “sapiente” è colui che dirime, che indirizza, che risolve gli enigmi e le contraddizioni, perché rappresenta in massimo grado le norme della comunità e ne garantisce l’esistenza riportando all’ordine, quindi alla norma costituita, ciò che tende a discostarsene ed a realizzare un punto singolare eterodosso.

Ha una funzione “rassicurante”, garantista come si dice oggi. Per definizione è infallibile. Omero che non riesce a risolvere l’enigma dei pescatori (ciò che abbiamo preso non lo possediamo, ciò che non abbiamo preso lo possediamo) deve uccidersi, perché non avendo trovato la risposta esatta ed ortodossa (i pidocchi) ha mancato nella sua funzione di protettore del sistema ed ha permesso che un’ambiguità restasse irrisolta, a rischio di turbare la coscienza dell’intera comunità.

Basta leggere il Libro della Sapienza, uno dei testi più tediosi e protervi che siano mai stati scritti, per rendersi conto che l’obiettivo è quello di una continua ed esasperante demarcazione tra bianco e nero, tra giusto e malvagio. In breve, una specie di atto costitutivo di una struttura ordinata (e insopportabile!) di cui si affermano le regole di partecipazione e di esclusione (gli egizi, i cananei…). Il sapiente per antonomasia è il Giudice. Il suo motto ordo ab chao. Il suo manifesto, un codice penale. La sua manifestazione, il tribunale con tutte le sue conseguenze (Hallâdj sarà prontamente giustiziato). Il suo ruolo è eminentemente sociale. Il suo scopo è il mantenimento dell’ordine che ha contribuito ad inventare e creare. La sua forma più degradata è il questurino.

Sapiente è Bernardo Gui, insipiente san Francesco.

Il sapiente guarderà sempre con sospetto chi si pone fuori dal Codex, perché mina alle fondamenta, col suo solo esistere, anche se non agisce e non parla, la struttura sociale costituita. Fra i sette sapienti sono emblematici Solone e specialmente Licurgo, i fondatori della "polis", cioè dell’umanità opposta alla "barbarie", a tutto ciò che non è "greco" e quindi non è umano, perché non ha leggi codificate di comportamento, o ne ha di diverse, incomprensibili o inaccettabili, da quelle concordate dalla comunità.

Sapiente è Demetra (e sapienti saranno i suoi ierofanti, gli eumolpidi), che istituirà i Misteri di Eleusi perché ad ogni evento iniziatico, la cui partecipazione è rigidamente limitata agli ateniesi (Eracle dovrà farsi adottare da un cittadino di Atene per essere iniziato, e per lui e per i casi analoghi si istituiranno delle iniziazioni preliminari, i cosiddetti Piccoli Misteri) sia riconfermata la struttura stessa della città e il suo porsi come spazio ordinato e civile, dove si coltivano le messi e si sono eliminate le pratiche barbare (cibi crudi, forse anche il cannibalismo). Possiamo perciò concludere che la sapienza essoterica è una prassi etico politica che si traduce in un agire ortodosso.

Il sapiente non conosce, non è interessato a conoscere. Classifica e ordina. Il suo esempio scientifico più coerente è Linneo. La sua arte paradigmatica è la tassonomia. Nella realtà cinese fu l’epoca dei legisti, di Shi Huangdi, l’imperatore unificante che normalizzò persino il passo dei carriaggi e le unità di misura di peso, eliminando (il rogo dei libri) tutto ciò che non rientrava nella struttura normativa e quindi ordinata, che aveva immaginato e che voleva instaurare. Quindi, logicamente, costruì la Grande Muraglia. Il sapiente è innanzitutto un separatore: ho diabolos (‘ο διάβολος).

Provo ora a parlare della sapienza esoterica, anche se questa stessa frase è inevitabilmente un ossimoro. La sapienza esoterica, che chiamerò “saggezza” per distinguerla dall’altra, è un sogno, un’ipotesi, una leggenda. Vive nei miti.

Si dice, si racconta, che c’era una volta un saggio che…, e questo saggio è come la principessa delle favole, o il principe azzurro. Non si può trovare nessun modo per sapere se sia mai esistito, se non in quel mondo così lontano e alieno dal nostro, da non avervi nessun punto di contatto.
Per quel che si può ricavare da esili tracce lasciate sparse qua e là nei secoli e nei luoghi più disparati – ma non sapremo mai se non sono soltanto orme di sogni sognati da altri – sembra che la sua manifestazione in questo mondo rassomigli a follia.

La vera sapienza è follia per gli uomini, lo dice anche san Paolo, ma gli esempi si possono moltiplicare, sino alla Fête des Fous, la Festa dei Folli, dei Soffiatori (fol, follis in latino) degli iniziati all’Arte Sacra. Il saggio è fuori dalla norma, da tutte le norme. Il suo motto è chaos ab ordine. Il suo spazio, la libertà infinita e incondizionata. Si muove, come direbbe Prigogine, in un mondo “intrinsecamente aleatorio”, il mondo del caos per l’appunto. Anche se questo forse è l’autentico sostrato della nostra manifestazione, ammettiamo una buona volta che non siamo in grado di sopportarlo. È un pericolo per la società, la “polis”, che lo teme e lo ignora volutamente. Se lo trova e lo scopre, lo uccide, salvo poi pentirsene e assegnargli onoranze postume.

In realtà qui, in questo mondo, nel nostro mondo, non è utile a nulla e a nessuno. La sua stessa presenza, inquietante perché troppo critica, è nociva. Il saggio è un rischio perché è un comunicatore, trasmette ciò che ha visto, ciò che ha vissuto, racconta. Il saggio è innanzitutto un messaggero: ho anghelos (‘ο άγγελος).

Il saggio genera miti, non perché li inventi, ma perché li vive, ne è parte essenziale. Da sempre, il sapiente li distrugge, corporificandoli nella sua realtà e riconducendoli inflessibilmente nella storia. Viviamo di parole consunte, di pensieri sprecati. Si scava Montségur alla ricerca della coppa del Graal, mentre l’alchemico mysterium conjunctionis diventa soluzione per nevrosi di psichismi malati. Atlantide sta sotto le Azzorre, la piramide di Cheope disvela numeri di fisica atomica, Stonehenge è diventato un banale calendario astronomico. Di Artù colpisce l’evento adulterino, Ginevra sarà patrona di mogli insoddisfatte. A chi negare la virilità di un Lancillotto?

Smitizzare, neologismo illuminante, è obbligo e piacere, bieca soddisfazione di chi rifiuta che la vita corporea sia solo metafora di altro, disperati che non sanno immaginare che se stessi. In questo processo inarrestabile, presto tutti i miti saranno soltanto ricordo di chi avverte la "nostalgia dell’Oriente", pochi, sparuti pellegrini sulla Via Lattea di Compostella. Per questi resta il suggerimento antico di viaggiare "leggeri", come in questi dolci versi francesi di un’epoca forse più felice:

Vous qui allez à Saint-Jacques                Voi che andate a Santiago
Ne prenez point grand charge                  Non caricatevi troppo
Allez sur le léger                                      Andate leggeri
Car de peu l’on se fâche                          Perché basta poco a dar crucci.


Paolo Lucarelli