Testo dell'introduzione a Il mistero delle cattedrali e l'interpretazione esoterica dei simboli ermetici della Grande Opera nuova edizione italiana tradotta e annotata a cura di Paolo Lucarelli, con i disegni originali di Julien Champagne, Roma, Edizioni Mediterranee, 2005.
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Il mistero delle cattedrali e l'interpretazione esoterica dei simboli ermetici della Grande Opera" di Fulcanelli
Nuova edizione italiana tradotta e annotata a cura di Paolo Lucarelli, con i disegni originali di Julien Champagne, Roma, Edizioni Mediterranee, 2005
Narrava Canseliet che dopo aver ordinato e copiato in elegante corsivo inglese le pagine consegnate dal Maestro, prima di proporle a Jean Schemit per la pubblicazione, andò da Fulcanelli per una revisione e un'approvazione definitiva. Ma questi, l'allievo lo raccontava tanti anni dopo ancora con un certo sconcerto, si dimostrò piuttosto indifferente al lavoro compiuto e al testo nella sua versione definitiva. Volle solo l'assicurazione che la prima edizione non fosse gravata di diritti, mentre per le successive li lasciò in dono al discepolo. Questa edizione uscì in poche copie, non fu certo un grande successo e passò molto tempo prima che fosse esaurita. Avrebbero dovuto trascorrere molti anni prima che il nome di Fulcanelli e i titoli delle sue opere diventassero noti anche fuori dalla ristretta cerchia degli innamorati della dottrina alchemica.
Il mistero continua ad aleggiare sulla personalità profana dell'autore che impose questo segreto a chiunque ne fosse a conoscenza. Bisogna ammettere che la sua volontà fu soddisfatta in totale obbedienza, tant'è che ancora oggi, nonostante le cosiddette rivelazioni di tanti scopritori, non è mai stata realmente violata.
Potremmo qui riassumere qualche dato biografico, che Éugène Canseliet lasciò scivolare qua e là negli anni, talvolta in maniera contraddittoria, quasi a confondere ancora meglio le idee dei curiosi.
Fulcanelli sarebbe nato nel 1839, da famiglia aristocratica di buona e antica nobiltà. Studiò al Politecnico di Parigi e nel 1871 lo troviamo giovane ufficiale agli ordini di Viollet-le-Duc, impegnato nella difesa della città. Inizia poi una normale attività lavorativa che lo porta anche fuori dalla Francia, certamente in Italia e in Egitto. Nel secondo decennio del XX secolo, ormai ritirato dalla vita attiva e dedito solo alle sue ricerche alchemiche, è a Marsiglia dove incontra Canseliet. Tornato a Parigi, intorno gli anni Trenta scompare definitivamente.
Il discepolo raccontava che si trattava di un gentiluomo ben inserito nella società aristocratica e culturale, che ebbe tra l’altro contatti con i Curie, in particolare Pierre – Canseliet non ne stimava molto la moglie. Amico di Anatole France, sembra che questi ne abbia tratto ispirazione per il personaggio del nobile alchimista rappresentato ne “La rosticceria della regina Pédauque”.
La contraddizione più evidente, o l'enigma più singolare se si preferisce, riguarda la sparizione dell'Adepto. Nella prima prefazione al Mistero delle Cattedrali scritta nel 1925, Canseliet ne parla come di qualcuno scomparso da tempo. Ma negli anni ’30 era ancora in contatto, almeno epistolare, con lui, se dobbiamo dar credito a un biglietto di risposta alla richiesta di aiuto per la malattia di Champagne. Scritto in una elegante calligrafia quasi settecentesca, era misteriosamente laconico e, a modo suo, terribile. Diceva, tra l’altro: “Se Dio lo perdonerà, guarirà.”
In effetti questa ambiguità si somma a un altro fatto, mi riferisco alla transmutazione che l’Adepto avrebbe compiuto di fronte a tre testimoni nel 1921 (o 22), che proverebbe il suo successo conclusivo nella realizzazione della Grande Opera e la dichiarazione dell’allievo che gli attribuisce l’ottenimento del Donum Dei negli anni ’30.
Non cercherò qui di risolvere queste aporie, né voglio proseguire su un tema di tanta delicatezza. Se Fulcanelli, per motivi suoi, ovviamente legittimi, non ha voluto che si dibattesse della sua personalità profana, non sarò certo io a contraddirlo.
Possiamo però, anzi dobbiamo a mio parere, distinguere due aspetti dell’autore, e quindi della sua opera. Da un lato abbiamo il grande alchimista, l’Adepto, come per l’appunto si definisce chi ha ottenuto la soluzione del mistero. Dall’altra ci si presenta l’uomo, inserito nella sua epoca, in una data società, con una certa concezione del mondo. Teniamole separate, perché l’una non infici l’altra. Quando Fulcanelli parla di alchimia ci inchiniamo di fronte al Maestro, quando divaga di presunte tradizioni, o di apocalittica, incontriamo l’uomo, e ci permettiamo di discutere e di commentare.
Fulcanelli era un uomo del suo tempo, e piuttosto che cercare di ricostruire improbabili dati biografici, conviene esaminare l'ambiente da cui proveniva e che lo caratterizzò culturalmente, tenendo conto di alcune singolarità della società francese della seconda metà dell'800, che non appaiono evidenti se non si riflette su certe conseguenze della grande Rivoluzione.
Riportiamoci al 1789. Due classi sociali, i cosiddetti Primo e Secondo Ordine, clero e aristocrazia, detengono in modo quasi esclusivo il potere e la ricchezza del paese. Questo avviene in modo così totale, che a volte sfugge alla comprensione dello studioso. Alcune cifre daranno meglio di qualunque descrizione un'idea dell'eccezionalità del fenomeno.
Prendo ad esempio la città di Tolosa perché, come si vedrà, è un centro interessante anche per altri motivi più prossimi al nostro tema. La città ha circa 50.000 abitanti, e trae la maggior parte della sua ricchezza più dalle funzioni amministrative, commerciali e fondiarie che non da attività industriali. I nobili sono 204, e controllano il 53% delle ricchezze mobiliari, l’85% delle rendite immobiliari, il 92% delle rendite finanziarie, e la totalità delle alte cariche del clero e dello stato. Più della metà della popolazione sfiora la miseria, in mezzo si pone una borghesia composta di bottegai, artigiani, piccoli funzionari, con un livello di reddito che spesso supera di poco una dignitosa sopravvivenza. Se consideriamo che oltre alla ricchezza e al potere la nobiltà gode anche di uno status privilegiato in termini di prestigio sociale, si può ben immaginare come gli appartenenti a questa classe sociale vivessero in uno stato di beata soddisfazione.
Con la rivoluzione tutto è mutato. Ricchezze, privilegi, onori, sono scomparsi in un turbine di vento, spazzati da una veloce tempesta. Qualcosa si salvò, ma ben poco, non sicuramente il prestigio che per alcuni valeva più dell’oro, sparito per sempre sia per l'alto clero e per i nobili.
Subito dopo la caduta di Napoleone iniziò un tentativo di restaurazione, e l'aristocrazia sperò per un attimo di riprendere il potere. Fu innanzitutto necessario riconoscere l'esistenza di una nobiltà. La nuova carta costituzionale sancì: “La nobiltà antica riprende i suoi titoli; la nuova conserva i suoi, il re fa nobili a sua volontà; ma non accorda loro che rango e onori senza nessuna esenzione dagli impegni e doveri della società.” Nobiltà senza privilegi e per di più mescolata ai napoleonidi.
I vecchi titoli sarebbero stati riconosciuti purché coloro che li pretendevano fossero in grado di esibire le necessarie patenti. Come si può immaginare, mentre i nobili recenti furono in grado di esibirle con estrema facilità, le famiglie più antiche non possedevano se non raramente brevetti e bolle reali. Alcuni cercarono di farseli emettere nuovi dal re, molti si accontentarono di cosiddetti “titoli di cortesia” senza base giuridica. Ne vennero due conseguenze. Da un lato sorsero rivendicazioni aristocratiche un po' dovunque. La società borghese si volle nobilitare. Famoso l'episodio di Naundorff, un oscuro orologiaio tedesco che pretese di essere il delfino scomparso, e ambì al titolo di Luigi XVII. Più attinente al nostro tema, Pierre Dujols e il fratello, banali discendenti di un trovatello senza famiglia, vollero riallacciarsi all'antica famiglia reale dei Valois.
Una seconda conseguenza fu una passione sfrenata per bolle e patenti, che avrebbero dovuto qualificare non solo i titoli familiari, ma discendenze iniziatiche, settarie o ordini cavallereschi.
L’aristocrazia cercò anche soddisfazioni più concrete. Il suo massimo esponente, Villèle, si pose l'obiettivo di indennizzare gli émigrés che avevano perso ogni bene. Riconosciuta l'impossibilità, per motivi pratici e politici, di restituire i beni sequestrati e ormai venduti - Luigi XVIII fin dal suo ritorno aveva proclamato il carattere irrevocabile di questi trasferimenti di proprietà – di fronte a un valore stimato enorme per le casse dello Stato, Villèle nel 1825 pensò di attribuire agli antichi proprietari un'indennità sotto forma di una rendita del 3% del capitale presunto. Fu uno dei motivi che condussero alla rivoluzione del 1830 che distrusse ogni speranza di riacquisire, almeno in parte, ricchezze e potere. Fu la dimostrazione concreta che il popolo francese - la borghesia - aveva ormai chiari i suoi obiettivi e il controllo della nazione mentre la classe nobiliare dovette riconoscere la propria estinzione, almeno in termini di forza politica.
Delusi, amareggiati, frustrati, gli aristocratici, o coloro che si presumevano tali, si volsero allo spirito, alla religione, intesa perlopiù in senso eterodosso, e alle scienze occulte che, con termine inventato da poco si chiamarono esoterismo, parola più dignitosa e meno inquietante. Cominciarono a nascere associazioni più o meno segrete, alcune recuperate sin dall'epoca napoleonica. Si definivano quasi sempre cattoliche e fedeli alla Chiesa di Roma. La nostalgia per il passato generò un forte interesse per il medioevo, così disprezzato dal secolo dei lumi, ci si innamorò del gotico prima tanto denigrato, si diressero e reinterpretarono i romanzi del ciclo arturiano, le leggende del Graal, persino l'agiografia ebbe i suoi sostenitori. Da qui alla passione per una cavalleria reinventata in senso misteriosofico il passo fu breve.
L'Ordine Templare, con la sua fine tragica, le oscurità del processo, il rogo dei suoi dignitari, conquistò facilmente il primato in questa vicenda. Il fatto che fosse scomparso da secoli permise qualunque fantasticheria. Emersero da un oscuro passato bolle, patenti e documenti più o meno ben costruiti che sostenevano varie pretese di ricostituzione o di collegamenti iniziatici con l’Ordine. Non mancavano alchimia e teurgia in questi consessi, e vi si aggiunse una novità del secolo, le apparizioni o convocazioni spiritiche. Vediamo alcuni esempi per chiarire meglio questo mondo confuso e ribollente.
Tolosa fu uno dei centri più attivi. Qui nel 1807 si sviluppa la Congrègation de la Trés Sainte Vierge, fondata qualche anno prima da un gesuita. Votata al culto della Vergine aveva come scopo “la santificazione dei suoi membri e la salvezza delle anime che li circondano”. In realtà era un punto di incontro per gli aristocratici più accesi e più reazionari.
Il conte de Bertier, ultrarealista e ultracattolico, membro della Congregazione, crea l’Ordre des Chevaliers de la Foi, ufficialmente più impegnato in politica. È una setta in cinque gradi. Nel 1813 entra tra questi cavalieri il conte di Villèle, di cui si è già parlato, presidente del consiglio nel 1822 al 1828. Dopo il 1830 il gruppo genera una rete di società segrete con l'obiettivo di riprendere il potere. Nascono due nuovi ordini, i Chevaliers de la Légitimité e quelli de la Fidélité.
Nel 1831 Villèle partecipa, e poi probabilmente dirige, un altro ordine, l'Affiliation Catholique. Entrandovi si formulava una promessa solenne che rappresenta bene tutte questo ambiente culturale:
Uno dei dirigenti dell’Affiliation era il marchese Charles de Hautpoul. Personaggio singolare, era anche membro autorevole della loggia massonica La Sagesse, che diventò durante il decennio successivo al 1830 uno dei più importanti centri di riunione degli aristocratici più reazionari. È interessante notare che gli Hautpoul, rilevante famiglia di antica nobiltà, tutti appassionati di esoterismo, erano baroni feudatari di un paese che sarebbe diventato famoso per gli amanti dell’occulto: Rennes-le-Château.
Esoterica, più ristretta, ancora più segreta, nasce la cosiddetta Rosa-Croce di Tolosa (il vero nome era probabilmente Ordine della Rosa-Croce Cattolica) che unisce alla visione politica reazionaria che rifiuta la nuova società borghese industriale, la fedeltà alla Chiesa Cattolica e la ricerca di una tradizione gnostica occulta cristiana. Manifesta un forte interesse per l'alchimia con il desiderio di riconciliare tradizione e scienza. Vi si notano per la prima volta, ma sarà un tratto comune, atteggiamenti profetici apocalittici, l'attesa di un Grande Monarca che ristabilirà l'età dell'oro. Ne derivarono altri gruppi rosacruciani e templari, in particolare l'Ordine della Rosa-Croce del Tempio e del Graal di Lapasse, tolosano, medico spagirico, che si diceva allievo di un principe Balbiani di Palermo, preteso discepolo di Cagliostro. In uno scritto di uno dei suoi più importanti membri leggiamo tra l'altro: “I loro [dei Rosa-Croce] statuti consistono nello scrutare la legge misteriosa dei numeri, i segreti dell'alchimia e della spagiria, gli arcani della natura.”
La Rivoluzione aveva voluto uniformare, la reazione volle far rifiorire, a volte con un certo gusto inventivo. gli usi della provincia. Per reazione al forte accentramento culturale e politico di epoca rivoluzionaria, si scoprì il valore delle tradizioni provinciali, spesso inventate con perizia da eruditi locali, e quello di dialetti ricondotti a dignità letterarie che non possedevano più da secoli o non avevano mai posseduto. Non stupisce perciò veder rinascere la Sobregaia Companhia dels VII Trobadors de Tolosa. Fondata nel medioevo per salvaguardare lingue e cultura occitane, mutata però ben presto in Collège de Rhétorique, che accettava solo testi in lingua francese, infine diventò l’Académie des Jeux Floraux. Nel XIX secolo fu una delle principali cittadelle del conservatorismo e della reazione. Fra i Mainteneurs, come si chiamavano i suoi dirigenti, troviamo buona parte dei nomi che circolavano nelle altre organizzazioni già viste. Tutti di impronta aristocratica, tutti fermamente legati alla fede cattolica. Si ristabilisce l'uso della lingua provenzale e vi si sostiene l'esistenza di una tradizione occulta, manifestata nel culto della Vergine Nera della Chiesa della Dourade e in una misteriosa figura detta la Dame de Toulouse. Si riscopre la tradizione catara. Si afferma l’esistenza di una particolare iniziazione, quella dei Perfetti Albigesi. Si individua in Montségur il castello del Graal. Nasce in circostanze curiose una Chiesa Gnostica - ne fece parte anche Guénon - che voleva restaurare insieme gnosi e catarismo.
I personaggi che si presentano su questa scena confusa e incoerente, di volta in volta comica, seria, tragica, sono numerosissimi. Vi si ritrovano eccentriche figure di eruditi che tracciano i canovacci di recite stravaganti che proseguiranno sino ad oggi. Uno di questi, Lacuria, molto ammirato, scrive un’ opera, “Les Harmonies de l’Etre”, in cui sostiene di voler presentare le leggi dell'ontologia, della psicologia, dell'etica, dell'estetica della fisica, spiegate le une dalle altre e ricondotte a un solo principio. Due figure singolari meritano un cenno a parte, perché hanno qualche riferimento più prossimo con Fulcanelli.
Il primo ci ricorda che in questa specie di brodo primordiale, agitato e ribollente, non potevano mancare due ingredienti fondamentali, l’Egitto e l'Italia, Heliopolis e Cagliostro, con un pizzico di massoneria. Si tratta del visconte Mathieu de Lesseps. Nato nel 1774, fu padre del più famoso Ferdinand, il progettista del canale di Suez. Diplomatico di mestiere, nella sua lunga carriera dimorò in Marocco, in Egitto, in Italia dove fondò una loggia massonica di rito ermetico, a Corfù, Aleppo, Tunisi. Appassionato di tutto ciò che aveva un sapore esoterico si fece iniziare in vari riti massonici, prese contatti con chiunque avesse ipotetici insegnamenti da trasmettergli, fu membro di una misteriosa società segreta egiziana che suscitò il sospetto di polizie segrete. Tornato in Francia, continuò a frequentare gli ambienti massonici, specialmente quelli che si rifacevano a un’ipotetica tradizione di epoca faraonica. Si fondarono alcune logge il cui nome distintivo colpisce lo studioso di Fulcanelli. Ne ricordo due: la loggia Héliopolis, di Lione, e la Héliopolis Renaissante di Metz. L'interesse per l'esoterismo, i contatti con Egitto con l'Italia, la passione per l'ermetismo, il visconte li trasmise a tutta la famiglia, peraltro molto estesa - comprendeva anche un ramo acquisito in Siviglia, e un altro di cui fece parte Raymond Roussel. Sembra accertato che nell'elegante casa dei Lesseps a Parigi ancora all'inizio del ’900 esistesse un laboratorio alchemico.
Il secondo, Grasset d’Orcet, fu, se non l'inventore, quantomeno il divulgatore di tutta una serie di miti culturali che Fulcanelli dà per scontati. Della sua vita non si sa molto. Nato nel 1828, laureato a Parigi, abbastanza giovane decise di stabilirsi a Cipro. Tornato in Francia iniziò a pubblicare dei saggi sulla “Revue Britannique”. Questa collaborazione, iniziata nel 1873, proseguì per 27 anni con circa 160 articoli sugli argomenti più vari. Morì nel 1900. In contatto con tutti i movimenti culturali ed occultistici della sua epoca, grande erudito, amava i misteri della storia. Se non c'erano li trovava, anche grazie a un suo curioso e originale metodo di interpretazione crittografica che è infine quella lingua degli uccelli o cabala fonetica di cui parla Fulcanelli e di cui l’Adepto talvolta si serve nelle sue opere. Forse non la inventò, ma certo la espose per primo e con chiarezza. Nei suoi saggi troviamo, tra l’altro, la rivelazione dell'esoterismo di Rabelais, la lettura decrittata del Sogno di Polifilo, la vera storia dei frammassoni, racconti su una misteriosa Massenia del santo Graal, setta di cavalieri legati alle corporazioni dei costruttori di cattedrali in possesso di arcane conoscenze tradizionali, da sempre in lotta contro le forze del Male. In realtà, a ribadire ancora una volta il legame con le associazioni aristocratiche, sembra che l’invenzione dell’esistenza di questo ordine cavalleresco, definito albigese, fosse dovuta originalmente a Eugène Aroux, uno dei Rosa-Croce di Tolosa, cui dobbiamo anche uno dei primi saggi sull’esoterismo di Dante, descritto come occulto eretico di origine catara.
Infine, per chiudere questa breve panoramica, non posso non ricordare i fenomeni di carattere più strettamente religioso che contraddistinguono il profondo disagio spirituale di quest’epoca ricca di mistici e visionari. La reazione cattolica, di fronte a uno Stato che vuole essere sempre più laico, esalta le apparizioni. Ricordo quelle mariane di La Salette e di Lourdes, Martin che incontra l’arcangelo Gabriele, o Vintras, con le sue visioni millenaristiche che preannunciano l’avvento del regno dello Spirito. L’apocalittica è uno dei caratteri distintivi della maggior parte di questa fenomenologia, l’attesa più o meno pessimistica della fine di un mondo, o piuttosto del Mondo, e la sua ricostituzione con un ritorno alla tradizione più pura della religione cristiana. Non a caso in tutti questi ambienti il termine Tradizione comincia ad essere scritto con la maiuscola, a indicare l’esistenza di quel Polo di conoscenze arcane, scomparso nell’antichità, o occultato in qualche luogo misterioso, cui Guénon darà perfetta teoretica e legittimità. Nello Hiéron du Val d’Or, un centro di aggregazione ultracattolico, confuso tra il mistico, il sociale e l’esoterico, ci si predispone al Regno Sociale del Cristo, si fanno risalire le origini del Cristianesimo ad Atlantide attraverso il druidismo, si studiano la gnosi, la kabbalah, l’alchimia. Una delle preoccupazioni dei suoi membri è il recupero della lingua primitiva, usata prima della confusione di Babele, mantenuta poi in cerchi occulti per la trasmissione di oscuri segreti iniziatici. Ebbe una forte rilevanza, fece introdurre con approvazione papale la festa del Cristo-Re, fondò una rivista “Regnabit” su cui scrissero, tra gli altri, Guénon e Charbonneau-Lassey.
In conclusione, il lettore di Fulcanelli ritrova in questo mondo, che ho cercato di descrivere brevemente, la maggior parte dei temi cari all’Adepto, dal supposto esoterismo dell’Ordine Templare, a quello dei costruttori di cattedrali gotiche, dai rituali ermetici provenzali, alla visione apocalittica e millenaristica, sino all’ipotetica esistenza di un linguaggio occulto la cui conoscenza apre le porte all’esoterismo alchemico, ad altri miti ancora. Perciò, se si vogliono comprendere certe affermazioni di Fulcanelli, che talvolta suonano un po’ sconcertanti, non si può non tenerne conto. È in questo ambiente, di aristocratici eruditi e appassionati di un passato rivissuto con una nostalgia struggente e impregnata di leggende, che, se proprio si vuole, va cercata la sua identità profana, e non certo, come sembra si continui a fare, tra i mediocri personaggi che vi ciondolavano intorno, per lo più figure miserelle alla ricerca di un pizzico di notorietà o di ansimanti riconoscimenti iniziatici, talvolta spinti sino a ridicoli epitaffi tombali.
Fulcanelli era un grande sperimentatore, un filosofo “operativo” nel senso più proprio del termine. Nei suoi testi le parti dedicate esplicitamente alla teoria – quasi esclusivamente ne “Le Dimore Filosofali” - sono poche e disperse, sempre molto succinte. Inoltre quando l’argomento può avere attinenza con la religione si comporta con estrema prudenza, quasi fosse trattenuto dallo scrupolo di non urtare i sentimenti dei fedeli, e non volesse dar prova di una qualche eterodossia da una tranquilla fede cattolica.
Anche se si trova qualche breve accenno al concetto un po’ eretico di Spirito nel senso di Spirito Universale così come era inteso dagli alchimisti più antichi, e fu espresso in modo più esplicito in Occidente nel XVI e XVII secolo, ne sfiora appena il tema, ne parla come del segreto per eccellenza in un passo dove riconosce nella Grande Opera il mistero della materializzazione dello spirito e della luce.
Questo Spirito per lui è uno strumento all’obbedienza di Dio, non un demiurgo onnipotente o Dio stesso, non ci sono cenni panteisti, al massimo potremmo vedervi una forma di emanazione. Lo assimila al fuoco e se dovessimo cercare un riferimento storico, potremmo forse trovarlo nello stoicismo antico, con cui sarebbe coerente anche la visione apocalittica di un rinnovamento ciclico del pianeta. Corriamo però il rischio di trarre da poche pagine delle conclusioni sforzate.
Ha certamente una concezione dualistica. L’immagine di una scintilla divina martire, laboriosa, immortale che si associa alla materia vile per una specie di destino di passione e di sofferenza – il cammino della croce, comune a tutti – per ritornare poi al focolare ardente e puro da cui per ordine di Dio è scesa in questo mondo, separa nettamente spirito e materia. L’anima sarà pienamente felice solo quando si sarà liberata dal fardello corporale.
Eppure in un altro passo dichiara la precisa convinzione in una reincarnazione ciclica e progressiva che non vede come una punizione o un tormento da cui bisogna sfuggire. Dichiara pacatamente: il vecchio di ieri è il bambino di domani. Gli scomparsi si ritrovano, gli smarriti si riavvicinano, i morti rinascono. Questo, lungi dal turbarlo, gli sembra fonte di serenità indefettibile. Se in certi suoi passi la morte appare soltanto come un intervallo tra due vite – l’anima, dice, non abbandona il proprio corpo terrestre che per assumerne un altro – altrove la descrive come porta di accesso al Cielo, al mondo spirituale, strumento di salvezza, utile e necessario, al punto che nota con una punta di rimpianto che non ci è permesso abbreviare, noi stessi, il tempo fissato dal nostro destino.
Non c’è contraddizione se si segue sino in fondo il ragionamento, pur espresso con tanta concisione. La morte è un momento di purificazione, ogni nuova esistenza segna un progresso rispetto alla precedente e al punto in cui questa si è interrotta. La vita umana è concepita come una lunga purificazione della materia e la morte o, più correttamente, le morti, sono una rigenerazione necessaria per acquisire una forma ogni volta migliore, con una nuova energia che la precedente non possedeva. È chiara qui l’applicazione alla vita umana dei fenomeni che si osservano durante le fasi finali della Grande Opera. La scintilla divina, l’anima immortale e individuale, diventa allora una specie di piccolo operatore, lo zolfo umano, con il compito preciso di contribuire a un’evoluzione, di cui peraltro non è noto il progetto.
Per il resto è insistente il richiamo al lavoro, alla sperimentazione, come unico mezzo per ottenere conoscenza, per cui diventa inutile, se non deviante, qualunque teorizzazione troppo sottile. Dice:
E ancora:
Solo così sarà possibile ottenere una conoscenza consapevole che non sarà, come spesso si pensa, un’illuminazione improvvisa, ma una conquista progressiva, ottenuta nel corso degli anni e con l’aiuto del tempo.
Anche se, ma vi accenna soltanto, il filosofo cerca, anzi spera, di ottenere qualcosa di più e di diverso, qualcosa che non è necessariamente una comprensione, una gnosi, ma piuttosto ciò che l’Adepto definisce più volte come il Dono di Dio, di fronte a cui la pietra filosofale non è che il primo gradino di una lunga scala misteriosissima. Di interventi divini ci parla più volte, e di rivelazioni successive, ognuna delle quali è già a suo modo un dono senza il quale non è possibile né intraprendere né progredire in questa via. Fulcanelli sosteneva, lo raccontava il suo discepolo, che già sentire l’urgenza, il bisogno improrogabile, di iniziare ad operare praticamente andava inteso come segno tangibile di grazia efficiente.
Seguiamo perciò l’invito di Fulcanelli e volgiamoci alla pratica. Possiamo cercare di precisare alcune caratteristiche della terminologia, per permettere una lettura più agevole del testo. L'Adepto si basa su alcuni autori classici. Basilio Valentino sembrerebbe il principale, con 39 citazioni nelle due opere, seguito dal Filalete con 28, il Cosmopolita con 20 e Limojon de Sainct-Didier con 18. Gli altri autori seguono con numeri decisamente inferiori. È comunque dal Filalete e dal Cosmopolita (o Sendivogio se si preferisce) che sarà tratta la maggior parte dei termini usati e anche la struttura simbolica della Grande opera. Vediamola brevemente.
Da una reazione iniziale di misti imperfetti si ottiene una materia particolare, detta materia prima. È orrenda, fetida, sgradevole, assolutamente inutile se non per l'opera alchemica. È chiamata Satana, drago nero e coperto di scaglie, libro chiuso, materia lebbrosa, Vergine Nera, caos nero, primo caos, vaso scaglioso, sostanza primitiva che la natura offre all'artista all'uscita della miniera, la nostra roccia, magnesia, vecchia quercia cava, capasanta o conchiglia di san Giacomo.
Occorre ora l'ausilio di un secondo corpo misterioso detto fuoco segreto o filosofico, che ha un aspetto salino, si trova nascosto nel ventre di Ariete ed è, precisa l'adepto, una materia molto comune che ci pare semplicemente utile. Lo chiama anche, con un termine che risale al Cosmopolita e che fu accolto con estremo favore da tutti gli autori successivi, acciaio. È l’agente, la verga, il bastone, la bacchetta, lo scettro, il caduceo, l'asta di giavellotto, il dardo.
Questa sarà il mercurio comune, primo dissolvente, leale servitore, spirito della magnesia, acqua viva.
Interrompiamo per un attimo questa analisi per notare che per queste operazione si fa più volte riferimento all'atto di Mosè quando, colpendo la roccia con il bastone, fa sgorgare acqua per gli assetati (Esodo: 17,5; Numeri: 20,8). Non è un simbolismo comune in Occidente. Lo troviamo invece nella tradizione islamica. Riporto qui, nella traduzione di Corbin, un passo del commento di Jaldakî, un alchimista iranico del XIV secolo, al “Libro delle sette statue” attribuito ad Apollonio di Tiana:
In proposito ne “Le dimore filosofali” Fulcanelli fa una dichiarazione di estrema importanza:
Questo mercurio è anche la stella che si ottiene alla fine del pellegrinaggio di Compostella (compos stellae). È l'agente dell'Opera, senza di cui non si può ottenere nulla, così importante che da lui - Mercurio, Hermes - tutta la filosofia ermetica, cioè mercuriale, ha preso nome.
Da qui, come dice la Tavola di Smeraldo, partono infinite applicazioni. Dice ancora Fulcanelli in un passo che va meditato:
Il nostro adepto comunque, seguendo la più pura e classica tradizione occidentale, prosegue con la pratica che conduce alla pietra trasmutatoria. Per questo scopo esistono varie alternative definite in prima analisi via “lunga o breve”, o “umida o secca”. Non c'è nessun motivo per pensare che le due distinzioni siano identiche e sovrapponibili, e ognuna può avere delle ulteriori specificazioni.
Prescindendo da queste particolarità, l'obiettivo è il medesimo, per cui ne possiamo parlare in termini unificati. Si tratta di aggiungere al mercurio comune uno zolfo vivo, definito metallico. È proprio in un metallo, o almeno in qualcosa che ne può assumere la definizione, che Fulcanelli ci invita a cercarlo. Si tratta di aprire questo metallo, il secondo libro chiuso, detto anche oro, oro filosofico, oro non volgare, e di estrarne la parte viva e attiva. Operazione - in realtà insieme di operazioni - detta anche rincrudazione, quella in cui si uccide il vivo per rianimare il morto, che non è evidentemente una vera rianimazione di un metallo morto, ma, come già detto, l'estrazione del suo zolfo e la sua unione con il mercurio. Dice l’Adepto:
Infatti così si chiama il corpo misterioso che si ottiene, cui si attribuiscono vari altri nomi: mercurio dei saggi, materia prossima dell’Opera, umido radicale dei metalli, seme dei metalli, acqua permanente, sale di saggezza, Rebis, acqua dei due campioni, mercurio doppio, alambicco dei saggi, sale dei saggi, pietra angolare dell’Opera, pietra dei filosofi, composto, amalgama filosofico.
Siamo giunti così alla conclusione dell’Opera, o alla sua terza fase se si preferisce. Inizia cioè la cosiddetta cottura, che conduce all’ottenimento di una prima Pietra. Questa, ridissolta più volte nell’acqua, viene moltiplicata in quantità e qualità. Segue la fermentazione con oro o argento, volgari e comuni, che la trasforma in polvere di proiezione, e, infine, se si desidera, la transmutazione di qualunque metallo vile in oro o argento. La Grande Opera fisica è finita.
Mancano in questa succinta descrizione molti dettagli, e, più importante, manca ogni riferimento al fenomeno di attrazione dello Spirito e alla sua corporificazione, che giustifica la stessa alchimia. Come ho già detto, Fulcanelli vi accenna appena. Comunque il mio intento è soltanto quello di fornire al lettore attento delle indicazioni per non smarrirsi nel labirinto ermetico. Delle note che seguono il testo chiariranno meglio certi punti particolarmente importanti.
Come si è raccontato più volte, esisteva un terzo libro che doveva completare la fatica dell’Adepto. Intitolato “Finis Gloriae Mundi”, nasceva da una visione apocalittica che avrebbe dovuto descrivere le ultime fasi di un ciclo giunto alla conclusione.
Fulcanelli pensava che il nostro pianeta fosse destinato a una serie di sconvolgimenti terribili, che lo avrebbero dovuto scuotere ogni 2.500 anni. Questi si sarebbero manifestati in un’inversione dei poli, e in una conseguente distruzione totale ad opera del fuoco di una metà del pianeta, mentre l’altra metà, invasa dall’acqua, avrebbe permesso la salvezza di qualche predestinato. Dopo altri 2.500 anni il fenomeno si sarebbe capovolto, distruggendo la parte relativamente salva, e annegando l’altra. Tra i due cicli, un periodo di 250 anni avrebbe visto soppresse la maggior parte delle leggi fisiche, e i pochi sopravvissuti convivere malamente in una zona prestabilita dalle caratteristiche climatiche singolari.
Egli si sentiva prossimo a questa specie di apocatastasi, e prevedeva a breve l’annichilamento da parte del fuoco per il nostro emisfero. Questa convinzione gli proveniva, sia dalle sue visioni alchemiche, sia da una trasmissione orale che avrebbe avuto la sua origine nell’Ordine del Tempio, che ne lasciò tracce nei graffiti impressi dai Cavalieri sulle pareti delle celle in cui furono imprigionati a Chinon. Da ciò la grande curiosità su questo testo che - questo interessava e forse ancora interessa - avrebbe tra l’altro indicato dove sarebbe stato il luogo benedetto della salvezza, l’Arca, per dargli il suo nome tradizionale. Non lo sapremo mai. Quando Fulcanelli riprese il testo per distruggerlo, non si sa se perché lo considerasse ormai superato dalle conoscenze acquisite, o perché troppo esplicativo, poche pagine disperse rimasero a Canseliet. Alcune furono in seguito pubblicate alla fine de “Le Dimore Filosofali”, in una successiva edizione. Una, conservata a parte, riportava una specie di indice sinossi dell’opera. Dopo che Jean Laplace decise di rivelarla sulla sua rivista, non c’è motivo perché anche i lettori italiani non la conoscano. È la seguente:
Bisogna ammettere che alcuni di questi titoli sono molto stimolanti, e ci resta il rimpianto di non poterne conoscere lo sviluppo, anche perché - si pensi al fenomeno contemporaneo della moda - dovevano esserci delle intuizioni non comuni.
Restano due enigmi in questo testo, di cui devo parlare.
Il primo non mi risulta sia mai stato notato. Proprio alla fine, premesso all’ultimo capitoletto, un breve motto latino attribuito a Zoroastro, dice: Scire. Potere. Audere. Tacere. Ora, “potere” non è parola latina, ma italiana. Come può essere sfuggita a un erudito come Fulcanelli? E a un latinista appassionato come Canseliet? O in questo presunto errore si nasconde un messaggio, un’indicazione?
Già altrove, nel mio commento alle opere del Filalete, ho parlato di un manoscritto italiano giunto fortunosamente sino a me, precedente come data al Mistero delle Cattedrali, che riporta in testa il sigillo templare dell’Adepto, e in una pagina successiva questo stesso motto, più esteso e sviluppato. Manoscritto che commenta l’opera maggiore del Filalete nella versione di Lenglet Dufresnoy, piuttosto scorretta rispetto all’originale latino, che però è l’unica che Fulcanelli utilizza e cita. Una prova di un collegamento con un gruppo ermetico italiano, anzi romano? La testimonianza dell’eventuale maestro e iniziatore dell’Adepto francese? Certo, anche lo pseudonimo scelto – Fulcanelli - ha un suono piuttosto italico, ma non mi pare il caso di andare oltre nelle ipotesi, anche per non turbare troppo i nostri amici di Francia, così fieri e patriottici anche quando si tratta di Alchimia.
Il secondo enigma si avvia a compiere quasi un secolo di vita.
Nella prima prefazione Canseliet scriveva:
So, non per averlo scoperto io stesso, ma perché l’Autore me lo ha confermato più di dieci anni fa, che la chiave dell’arcano maggiore è data senza alcuna finzione da una delle figure che illustrano l’opera. Questa chiave consiste molto semplicemente in un colore che si manifesta all’artista sin dalla prima operazione…
Negli anni ho sentito le più curiose spiegazioni di questo passo, tutte rivolte all’osservazione delle due tavole evidentemente colorate. Nessuno, o ben pochi, si sono accorti dell’esistenza di una terza figura a colori, o l’hanno esaminata.
Occorre una premessa. Secondo alcune teorie, che Fulcanelli condivideva, l’araldica affonda le sue radici nell’alchimia e nella cabala ermetica. La creazione di un blasone o i modi per leggerlo, anzi si dovrebbe dire per cantarlo, seguono regole rigide che veramente sembrano nate dalla più pura operatività ermetica. Aggiungo che per la necessità di rappresentare uno stemma anche in bianco e nero, sin dall’inizio si stabilirono convenzioni che lo permettessero, dando un senso al tratteggio orizzontale, verticale, al punteggiato e così via.
Ora se noi andiamo alla fine del libro, troviamo un blasone che proverò a leggere secondo l’antico e ormai desueto costume:
In questa figura dipinta secondo le regole araldiche c’è un unico colore, il rosso, dato che l’oro è metallo e non colore. Se si osserva poi lo stemma, con lo scudo cosiddetto alla francese, appare chiaramente la rappresentazione di un crogiolo visto in sezione verticale, dove gli svolazzi sono i fumi che escono al momento del massimo calore nel forno. Questa dunque è la prima operazione di alchimia, come diceva Canseliet, alla fine della quale deve manifestarsi quel rosso tanto misterioso e importante da essere definito arcano maggiore dell’Arte, che sovrasterà l’oro, o meglio un’acqua dorata, più o meno nelle proporzioni che qui si vedono. La divisa si traduce facilmente se si tien conto che campa è ablativo di campas: l’agnella resa feconda dall’ippocampo. Descrive l’obiettivo intimo che si è raggiunto.
Alla fine di questa breve introduzione, resta il dubbio che sia un atto di presunzione osare un’esegesi, delle annotazioni, a un testo che ad alcuni appare come Parola Divina. Eppure, a quasi un secolo di distanza dalla sua stesura, mi pare che all’opera magistrale di Fulcanelli, proprio perché merita a pieno diritto di essere inclusa tra i più grandi classici dell’Alchimia, dovesse come a questi essere attribuito l’onore che a quelli viene di norma tributato: quello cioè di un’analisi e di un commento, cui spero seguiranno altri, più riflessivi e più accorti del mio. D’altra parte, come rispose Canseliet di fronte al mio stupore per certe rivelazioni fatte ne “L’Alchimia spiegata sui testi classici”, dato che non si è fatto vivo nessuno a protestare, immagino che anche altrove non si siano espresse grandi obiezioni.
Non nobis Domine…
Il mistero continua ad aleggiare sulla personalità profana dell'autore che impose questo segreto a chiunque ne fosse a conoscenza. Bisogna ammettere che la sua volontà fu soddisfatta in totale obbedienza, tant'è che ancora oggi, nonostante le cosiddette rivelazioni di tanti scopritori, non è mai stata realmente violata.
Potremmo qui riassumere qualche dato biografico, che Éugène Canseliet lasciò scivolare qua e là negli anni, talvolta in maniera contraddittoria, quasi a confondere ancora meglio le idee dei curiosi.
Fulcanelli sarebbe nato nel 1839, da famiglia aristocratica di buona e antica nobiltà. Studiò al Politecnico di Parigi e nel 1871 lo troviamo giovane ufficiale agli ordini di Viollet-le-Duc, impegnato nella difesa della città. Inizia poi una normale attività lavorativa che lo porta anche fuori dalla Francia, certamente in Italia e in Egitto. Nel secondo decennio del XX secolo, ormai ritirato dalla vita attiva e dedito solo alle sue ricerche alchemiche, è a Marsiglia dove incontra Canseliet. Tornato a Parigi, intorno gli anni Trenta scompare definitivamente.
Il discepolo raccontava che si trattava di un gentiluomo ben inserito nella società aristocratica e culturale, che ebbe tra l’altro contatti con i Curie, in particolare Pierre – Canseliet non ne stimava molto la moglie. Amico di Anatole France, sembra che questi ne abbia tratto ispirazione per il personaggio del nobile alchimista rappresentato ne “La rosticceria della regina Pédauque”.
La contraddizione più evidente, o l'enigma più singolare se si preferisce, riguarda la sparizione dell'Adepto. Nella prima prefazione al Mistero delle Cattedrali scritta nel 1925, Canseliet ne parla come di qualcuno scomparso da tempo. Ma negli anni ’30 era ancora in contatto, almeno epistolare, con lui, se dobbiamo dar credito a un biglietto di risposta alla richiesta di aiuto per la malattia di Champagne. Scritto in una elegante calligrafia quasi settecentesca, era misteriosamente laconico e, a modo suo, terribile. Diceva, tra l’altro: “Se Dio lo perdonerà, guarirà.”
In effetti questa ambiguità si somma a un altro fatto, mi riferisco alla transmutazione che l’Adepto avrebbe compiuto di fronte a tre testimoni nel 1921 (o 22), che proverebbe il suo successo conclusivo nella realizzazione della Grande Opera e la dichiarazione dell’allievo che gli attribuisce l’ottenimento del Donum Dei negli anni ’30.
Non cercherò qui di risolvere queste aporie, né voglio proseguire su un tema di tanta delicatezza. Se Fulcanelli, per motivi suoi, ovviamente legittimi, non ha voluto che si dibattesse della sua personalità profana, non sarò certo io a contraddirlo.
Possiamo però, anzi dobbiamo a mio parere, distinguere due aspetti dell’autore, e quindi della sua opera. Da un lato abbiamo il grande alchimista, l’Adepto, come per l’appunto si definisce chi ha ottenuto la soluzione del mistero. Dall’altra ci si presenta l’uomo, inserito nella sua epoca, in una data società, con una certa concezione del mondo. Teniamole separate, perché l’una non infici l’altra. Quando Fulcanelli parla di alchimia ci inchiniamo di fronte al Maestro, quando divaga di presunte tradizioni, o di apocalittica, incontriamo l’uomo, e ci permettiamo di discutere e di commentare.
Fulcanelli era un uomo del suo tempo, e piuttosto che cercare di ricostruire improbabili dati biografici, conviene esaminare l'ambiente da cui proveniva e che lo caratterizzò culturalmente, tenendo conto di alcune singolarità della società francese della seconda metà dell'800, che non appaiono evidenti se non si riflette su certe conseguenze della grande Rivoluzione.
Riportiamoci al 1789. Due classi sociali, i cosiddetti Primo e Secondo Ordine, clero e aristocrazia, detengono in modo quasi esclusivo il potere e la ricchezza del paese. Questo avviene in modo così totale, che a volte sfugge alla comprensione dello studioso. Alcune cifre daranno meglio di qualunque descrizione un'idea dell'eccezionalità del fenomeno.
Prendo ad esempio la città di Tolosa perché, come si vedrà, è un centro interessante anche per altri motivi più prossimi al nostro tema. La città ha circa 50.000 abitanti, e trae la maggior parte della sua ricchezza più dalle funzioni amministrative, commerciali e fondiarie che non da attività industriali. I nobili sono 204, e controllano il 53% delle ricchezze mobiliari, l’85% delle rendite immobiliari, il 92% delle rendite finanziarie, e la totalità delle alte cariche del clero e dello stato. Più della metà della popolazione sfiora la miseria, in mezzo si pone una borghesia composta di bottegai, artigiani, piccoli funzionari, con un livello di reddito che spesso supera di poco una dignitosa sopravvivenza. Se consideriamo che oltre alla ricchezza e al potere la nobiltà gode anche di uno status privilegiato in termini di prestigio sociale, si può ben immaginare come gli appartenenti a questa classe sociale vivessero in uno stato di beata soddisfazione.
Con la rivoluzione tutto è mutato. Ricchezze, privilegi, onori, sono scomparsi in un turbine di vento, spazzati da una veloce tempesta. Qualcosa si salvò, ma ben poco, non sicuramente il prestigio che per alcuni valeva più dell’oro, sparito per sempre sia per l'alto clero e per i nobili.
Subito dopo la caduta di Napoleone iniziò un tentativo di restaurazione, e l'aristocrazia sperò per un attimo di riprendere il potere. Fu innanzitutto necessario riconoscere l'esistenza di una nobiltà. La nuova carta costituzionale sancì: “La nobiltà antica riprende i suoi titoli; la nuova conserva i suoi, il re fa nobili a sua volontà; ma non accorda loro che rango e onori senza nessuna esenzione dagli impegni e doveri della società.” Nobiltà senza privilegi e per di più mescolata ai napoleonidi.
I vecchi titoli sarebbero stati riconosciuti purché coloro che li pretendevano fossero in grado di esibire le necessarie patenti. Come si può immaginare, mentre i nobili recenti furono in grado di esibirle con estrema facilità, le famiglie più antiche non possedevano se non raramente brevetti e bolle reali. Alcuni cercarono di farseli emettere nuovi dal re, molti si accontentarono di cosiddetti “titoli di cortesia” senza base giuridica. Ne vennero due conseguenze. Da un lato sorsero rivendicazioni aristocratiche un po' dovunque. La società borghese si volle nobilitare. Famoso l'episodio di Naundorff, un oscuro orologiaio tedesco che pretese di essere il delfino scomparso, e ambì al titolo di Luigi XVII. Più attinente al nostro tema, Pierre Dujols e il fratello, banali discendenti di un trovatello senza famiglia, vollero riallacciarsi all'antica famiglia reale dei Valois.
Una seconda conseguenza fu una passione sfrenata per bolle e patenti, che avrebbero dovuto qualificare non solo i titoli familiari, ma discendenze iniziatiche, settarie o ordini cavallereschi.
L’aristocrazia cercò anche soddisfazioni più concrete. Il suo massimo esponente, Villèle, si pose l'obiettivo di indennizzare gli émigrés che avevano perso ogni bene. Riconosciuta l'impossibilità, per motivi pratici e politici, di restituire i beni sequestrati e ormai venduti - Luigi XVIII fin dal suo ritorno aveva proclamato il carattere irrevocabile di questi trasferimenti di proprietà – di fronte a un valore stimato enorme per le casse dello Stato, Villèle nel 1825 pensò di attribuire agli antichi proprietari un'indennità sotto forma di una rendita del 3% del capitale presunto. Fu uno dei motivi che condussero alla rivoluzione del 1830 che distrusse ogni speranza di riacquisire, almeno in parte, ricchezze e potere. Fu la dimostrazione concreta che il popolo francese - la borghesia - aveva ormai chiari i suoi obiettivi e il controllo della nazione mentre la classe nobiliare dovette riconoscere la propria estinzione, almeno in termini di forza politica.
Delusi, amareggiati, frustrati, gli aristocratici, o coloro che si presumevano tali, si volsero allo spirito, alla religione, intesa perlopiù in senso eterodosso, e alle scienze occulte che, con termine inventato da poco si chiamarono esoterismo, parola più dignitosa e meno inquietante. Cominciarono a nascere associazioni più o meno segrete, alcune recuperate sin dall'epoca napoleonica. Si definivano quasi sempre cattoliche e fedeli alla Chiesa di Roma. La nostalgia per il passato generò un forte interesse per il medioevo, così disprezzato dal secolo dei lumi, ci si innamorò del gotico prima tanto denigrato, si diressero e reinterpretarono i romanzi del ciclo arturiano, le leggende del Graal, persino l'agiografia ebbe i suoi sostenitori. Da qui alla passione per una cavalleria reinventata in senso misteriosofico il passo fu breve.
L'Ordine Templare, con la sua fine tragica, le oscurità del processo, il rogo dei suoi dignitari, conquistò facilmente il primato in questa vicenda. Il fatto che fosse scomparso da secoli permise qualunque fantasticheria. Emersero da un oscuro passato bolle, patenti e documenti più o meno ben costruiti che sostenevano varie pretese di ricostituzione o di collegamenti iniziatici con l’Ordine. Non mancavano alchimia e teurgia in questi consessi, e vi si aggiunse una novità del secolo, le apparizioni o convocazioni spiritiche. Vediamo alcuni esempi per chiarire meglio questo mondo confuso e ribollente.
Tolosa fu uno dei centri più attivi. Qui nel 1807 si sviluppa la Congrègation de la Trés Sainte Vierge, fondata qualche anno prima da un gesuita. Votata al culto della Vergine aveva come scopo “la santificazione dei suoi membri e la salvezza delle anime che li circondano”. In realtà era un punto di incontro per gli aristocratici più accesi e più reazionari.
Il conte de Bertier, ultrarealista e ultracattolico, membro della Congregazione, crea l’Ordre des Chevaliers de la Foi, ufficialmente più impegnato in politica. È una setta in cinque gradi. Nel 1813 entra tra questi cavalieri il conte di Villèle, di cui si è già parlato, presidente del consiglio nel 1822 al 1828. Dopo il 1830 il gruppo genera una rete di società segrete con l'obiettivo di riprendere il potere. Nascono due nuovi ordini, i Chevaliers de la Légitimité e quelli de la Fidélité.
Nel 1831 Villèle partecipa, e poi probabilmente dirige, un altro ordine, l'Affiliation Catholique. Entrandovi si formulava una promessa solenne che rappresenta bene tutte questo ambiente culturale:
Giuro di difendere sino alla morte la religione cattolica apostolica romana; giuro di eseguire immediatamente tutti gli ordini che mi saranno trasmessi dei miei superiori; a questo scopo giuro di conservare, anche di fronte alla giustizia, il segreto più assoluto su tutto ciò che ha rapporto con l'Affiliazione, votandomi alla pena dei traditori se violo il mio giuramento.
Uno dei dirigenti dell’Affiliation era il marchese Charles de Hautpoul. Personaggio singolare, era anche membro autorevole della loggia massonica La Sagesse, che diventò durante il decennio successivo al 1830 uno dei più importanti centri di riunione degli aristocratici più reazionari. È interessante notare che gli Hautpoul, rilevante famiglia di antica nobiltà, tutti appassionati di esoterismo, erano baroni feudatari di un paese che sarebbe diventato famoso per gli amanti dell’occulto: Rennes-le-Château.
Esoterica, più ristretta, ancora più segreta, nasce la cosiddetta Rosa-Croce di Tolosa (il vero nome era probabilmente Ordine della Rosa-Croce Cattolica) che unisce alla visione politica reazionaria che rifiuta la nuova società borghese industriale, la fedeltà alla Chiesa Cattolica e la ricerca di una tradizione gnostica occulta cristiana. Manifesta un forte interesse per l'alchimia con il desiderio di riconciliare tradizione e scienza. Vi si notano per la prima volta, ma sarà un tratto comune, atteggiamenti profetici apocalittici, l'attesa di un Grande Monarca che ristabilirà l'età dell'oro. Ne derivarono altri gruppi rosacruciani e templari, in particolare l'Ordine della Rosa-Croce del Tempio e del Graal di Lapasse, tolosano, medico spagirico, che si diceva allievo di un principe Balbiani di Palermo, preteso discepolo di Cagliostro. In uno scritto di uno dei suoi più importanti membri leggiamo tra l'altro: “I loro [dei Rosa-Croce] statuti consistono nello scrutare la legge misteriosa dei numeri, i segreti dell'alchimia e della spagiria, gli arcani della natura.”
La Rivoluzione aveva voluto uniformare, la reazione volle far rifiorire, a volte con un certo gusto inventivo. gli usi della provincia. Per reazione al forte accentramento culturale e politico di epoca rivoluzionaria, si scoprì il valore delle tradizioni provinciali, spesso inventate con perizia da eruditi locali, e quello di dialetti ricondotti a dignità letterarie che non possedevano più da secoli o non avevano mai posseduto. Non stupisce perciò veder rinascere la Sobregaia Companhia dels VII Trobadors de Tolosa. Fondata nel medioevo per salvaguardare lingue e cultura occitane, mutata però ben presto in Collège de Rhétorique, che accettava solo testi in lingua francese, infine diventò l’Académie des Jeux Floraux. Nel XIX secolo fu una delle principali cittadelle del conservatorismo e della reazione. Fra i Mainteneurs, come si chiamavano i suoi dirigenti, troviamo buona parte dei nomi che circolavano nelle altre organizzazioni già viste. Tutti di impronta aristocratica, tutti fermamente legati alla fede cattolica. Si ristabilisce l'uso della lingua provenzale e vi si sostiene l'esistenza di una tradizione occulta, manifestata nel culto della Vergine Nera della Chiesa della Dourade e in una misteriosa figura detta la Dame de Toulouse. Si riscopre la tradizione catara. Si afferma l’esistenza di una particolare iniziazione, quella dei Perfetti Albigesi. Si individua in Montségur il castello del Graal. Nasce in circostanze curiose una Chiesa Gnostica - ne fece parte anche Guénon - che voleva restaurare insieme gnosi e catarismo.
I personaggi che si presentano su questa scena confusa e incoerente, di volta in volta comica, seria, tragica, sono numerosissimi. Vi si ritrovano eccentriche figure di eruditi che tracciano i canovacci di recite stravaganti che proseguiranno sino ad oggi. Uno di questi, Lacuria, molto ammirato, scrive un’ opera, “Les Harmonies de l’Etre”, in cui sostiene di voler presentare le leggi dell'ontologia, della psicologia, dell'etica, dell'estetica della fisica, spiegate le une dalle altre e ricondotte a un solo principio. Due figure singolari meritano un cenno a parte, perché hanno qualche riferimento più prossimo con Fulcanelli.
Il primo ci ricorda che in questa specie di brodo primordiale, agitato e ribollente, non potevano mancare due ingredienti fondamentali, l’Egitto e l'Italia, Heliopolis e Cagliostro, con un pizzico di massoneria. Si tratta del visconte Mathieu de Lesseps. Nato nel 1774, fu padre del più famoso Ferdinand, il progettista del canale di Suez. Diplomatico di mestiere, nella sua lunga carriera dimorò in Marocco, in Egitto, in Italia dove fondò una loggia massonica di rito ermetico, a Corfù, Aleppo, Tunisi. Appassionato di tutto ciò che aveva un sapore esoterico si fece iniziare in vari riti massonici, prese contatti con chiunque avesse ipotetici insegnamenti da trasmettergli, fu membro di una misteriosa società segreta egiziana che suscitò il sospetto di polizie segrete. Tornato in Francia, continuò a frequentare gli ambienti massonici, specialmente quelli che si rifacevano a un’ipotetica tradizione di epoca faraonica. Si fondarono alcune logge il cui nome distintivo colpisce lo studioso di Fulcanelli. Ne ricordo due: la loggia Héliopolis, di Lione, e la Héliopolis Renaissante di Metz. L'interesse per l'esoterismo, i contatti con Egitto con l'Italia, la passione per l'ermetismo, il visconte li trasmise a tutta la famiglia, peraltro molto estesa - comprendeva anche un ramo acquisito in Siviglia, e un altro di cui fece parte Raymond Roussel. Sembra accertato che nell'elegante casa dei Lesseps a Parigi ancora all'inizio del ’900 esistesse un laboratorio alchemico.
Il secondo, Grasset d’Orcet, fu, se non l'inventore, quantomeno il divulgatore di tutta una serie di miti culturali che Fulcanelli dà per scontati. Della sua vita non si sa molto. Nato nel 1828, laureato a Parigi, abbastanza giovane decise di stabilirsi a Cipro. Tornato in Francia iniziò a pubblicare dei saggi sulla “Revue Britannique”. Questa collaborazione, iniziata nel 1873, proseguì per 27 anni con circa 160 articoli sugli argomenti più vari. Morì nel 1900. In contatto con tutti i movimenti culturali ed occultistici della sua epoca, grande erudito, amava i misteri della storia. Se non c'erano li trovava, anche grazie a un suo curioso e originale metodo di interpretazione crittografica che è infine quella lingua degli uccelli o cabala fonetica di cui parla Fulcanelli e di cui l’Adepto talvolta si serve nelle sue opere. Forse non la inventò, ma certo la espose per primo e con chiarezza. Nei suoi saggi troviamo, tra l’altro, la rivelazione dell'esoterismo di Rabelais, la lettura decrittata del Sogno di Polifilo, la vera storia dei frammassoni, racconti su una misteriosa Massenia del santo Graal, setta di cavalieri legati alle corporazioni dei costruttori di cattedrali in possesso di arcane conoscenze tradizionali, da sempre in lotta contro le forze del Male. In realtà, a ribadire ancora una volta il legame con le associazioni aristocratiche, sembra che l’invenzione dell’esistenza di questo ordine cavalleresco, definito albigese, fosse dovuta originalmente a Eugène Aroux, uno dei Rosa-Croce di Tolosa, cui dobbiamo anche uno dei primi saggi sull’esoterismo di Dante, descritto come occulto eretico di origine catara.
Infine, per chiudere questa breve panoramica, non posso non ricordare i fenomeni di carattere più strettamente religioso che contraddistinguono il profondo disagio spirituale di quest’epoca ricca di mistici e visionari. La reazione cattolica, di fronte a uno Stato che vuole essere sempre più laico, esalta le apparizioni. Ricordo quelle mariane di La Salette e di Lourdes, Martin che incontra l’arcangelo Gabriele, o Vintras, con le sue visioni millenaristiche che preannunciano l’avvento del regno dello Spirito. L’apocalittica è uno dei caratteri distintivi della maggior parte di questa fenomenologia, l’attesa più o meno pessimistica della fine di un mondo, o piuttosto del Mondo, e la sua ricostituzione con un ritorno alla tradizione più pura della religione cristiana. Non a caso in tutti questi ambienti il termine Tradizione comincia ad essere scritto con la maiuscola, a indicare l’esistenza di quel Polo di conoscenze arcane, scomparso nell’antichità, o occultato in qualche luogo misterioso, cui Guénon darà perfetta teoretica e legittimità. Nello Hiéron du Val d’Or, un centro di aggregazione ultracattolico, confuso tra il mistico, il sociale e l’esoterico, ci si predispone al Regno Sociale del Cristo, si fanno risalire le origini del Cristianesimo ad Atlantide attraverso il druidismo, si studiano la gnosi, la kabbalah, l’alchimia. Una delle preoccupazioni dei suoi membri è il recupero della lingua primitiva, usata prima della confusione di Babele, mantenuta poi in cerchi occulti per la trasmissione di oscuri segreti iniziatici. Ebbe una forte rilevanza, fece introdurre con approvazione papale la festa del Cristo-Re, fondò una rivista “Regnabit” su cui scrissero, tra gli altri, Guénon e Charbonneau-Lassey.
In conclusione, il lettore di Fulcanelli ritrova in questo mondo, che ho cercato di descrivere brevemente, la maggior parte dei temi cari all’Adepto, dal supposto esoterismo dell’Ordine Templare, a quello dei costruttori di cattedrali gotiche, dai rituali ermetici provenzali, alla visione apocalittica e millenaristica, sino all’ipotetica esistenza di un linguaggio occulto la cui conoscenza apre le porte all’esoterismo alchemico, ad altri miti ancora. Perciò, se si vogliono comprendere certe affermazioni di Fulcanelli, che talvolta suonano un po’ sconcertanti, non si può non tenerne conto. È in questo ambiente, di aristocratici eruditi e appassionati di un passato rivissuto con una nostalgia struggente e impregnata di leggende, che, se proprio si vuole, va cercata la sua identità profana, e non certo, come sembra si continui a fare, tra i mediocri personaggi che vi ciondolavano intorno, per lo più figure miserelle alla ricerca di un pizzico di notorietà o di ansimanti riconoscimenti iniziatici, talvolta spinti sino a ridicoli epitaffi tombali.
Fulcanelli era un grande sperimentatore, un filosofo “operativo” nel senso più proprio del termine. Nei suoi testi le parti dedicate esplicitamente alla teoria – quasi esclusivamente ne “Le Dimore Filosofali” - sono poche e disperse, sempre molto succinte. Inoltre quando l’argomento può avere attinenza con la religione si comporta con estrema prudenza, quasi fosse trattenuto dallo scrupolo di non urtare i sentimenti dei fedeli, e non volesse dar prova di una qualche eterodossia da una tranquilla fede cattolica.
Anche se si trova qualche breve accenno al concetto un po’ eretico di Spirito nel senso di Spirito Universale così come era inteso dagli alchimisti più antichi, e fu espresso in modo più esplicito in Occidente nel XVI e XVII secolo, ne sfiora appena il tema, ne parla come del segreto per eccellenza in un passo dove riconosce nella Grande Opera il mistero della materializzazione dello spirito e della luce.
Questo Spirito per lui è uno strumento all’obbedienza di Dio, non un demiurgo onnipotente o Dio stesso, non ci sono cenni panteisti, al massimo potremmo vedervi una forma di emanazione. Lo assimila al fuoco e se dovessimo cercare un riferimento storico, potremmo forse trovarlo nello stoicismo antico, con cui sarebbe coerente anche la visione apocalittica di un rinnovamento ciclico del pianeta. Corriamo però il rischio di trarre da poche pagine delle conclusioni sforzate.
Ha certamente una concezione dualistica. L’immagine di una scintilla divina martire, laboriosa, immortale che si associa alla materia vile per una specie di destino di passione e di sofferenza – il cammino della croce, comune a tutti – per ritornare poi al focolare ardente e puro da cui per ordine di Dio è scesa in questo mondo, separa nettamente spirito e materia. L’anima sarà pienamente felice solo quando si sarà liberata dal fardello corporale.
Eppure in un altro passo dichiara la precisa convinzione in una reincarnazione ciclica e progressiva che non vede come una punizione o un tormento da cui bisogna sfuggire. Dichiara pacatamente: il vecchio di ieri è il bambino di domani. Gli scomparsi si ritrovano, gli smarriti si riavvicinano, i morti rinascono. Questo, lungi dal turbarlo, gli sembra fonte di serenità indefettibile. Se in certi suoi passi la morte appare soltanto come un intervallo tra due vite – l’anima, dice, non abbandona il proprio corpo terrestre che per assumerne un altro – altrove la descrive come porta di accesso al Cielo, al mondo spirituale, strumento di salvezza, utile e necessario, al punto che nota con una punta di rimpianto che non ci è permesso abbreviare, noi stessi, il tempo fissato dal nostro destino.
Non c’è contraddizione se si segue sino in fondo il ragionamento, pur espresso con tanta concisione. La morte è un momento di purificazione, ogni nuova esistenza segna un progresso rispetto alla precedente e al punto in cui questa si è interrotta. La vita umana è concepita come una lunga purificazione della materia e la morte o, più correttamente, le morti, sono una rigenerazione necessaria per acquisire una forma ogni volta migliore, con una nuova energia che la precedente non possedeva. È chiara qui l’applicazione alla vita umana dei fenomeni che si osservano durante le fasi finali della Grande Opera. La scintilla divina, l’anima immortale e individuale, diventa allora una specie di piccolo operatore, lo zolfo umano, con il compito preciso di contribuire a un’evoluzione, di cui peraltro non è noto il progetto.
Per il resto è insistente il richiamo al lavoro, alla sperimentazione, come unico mezzo per ottenere conoscenza, per cui diventa inutile, se non deviante, qualunque teorizzazione troppo sottile. Dice:
La scienza alchemica non si insegna; ognuno deve apprenderla da sé, non in modo speculativo, ma per mezzo di un lavoro perseverante, moltiplicando i saggi e i tentativi, in modo da sottomettere sempre la produzione del pensiero al controllo dell’esperienza.
E ancora:
Colui che teme il lavoro manuale, il calore dei forni, la polvere del carbone, il pericolo delle reazioni sconosciute e l’insonnia delle lunghe veglie, quello non saprà mai nulla.
Solo così sarà possibile ottenere una conoscenza consapevole che non sarà, come spesso si pensa, un’illuminazione improvvisa, ma una conquista progressiva, ottenuta nel corso degli anni e con l’aiuto del tempo.
Anche se, ma vi accenna soltanto, il filosofo cerca, anzi spera, di ottenere qualcosa di più e di diverso, qualcosa che non è necessariamente una comprensione, una gnosi, ma piuttosto ciò che l’Adepto definisce più volte come il Dono di Dio, di fronte a cui la pietra filosofale non è che il primo gradino di una lunga scala misteriosissima. Di interventi divini ci parla più volte, e di rivelazioni successive, ognuna delle quali è già a suo modo un dono senza il quale non è possibile né intraprendere né progredire in questa via. Fulcanelli sosteneva, lo raccontava il suo discepolo, che già sentire l’urgenza, il bisogno improrogabile, di iniziare ad operare praticamente andava inteso come segno tangibile di grazia efficiente.
Seguiamo perciò l’invito di Fulcanelli e volgiamoci alla pratica. Possiamo cercare di precisare alcune caratteristiche della terminologia, per permettere una lettura più agevole del testo. L'Adepto si basa su alcuni autori classici. Basilio Valentino sembrerebbe il principale, con 39 citazioni nelle due opere, seguito dal Filalete con 28, il Cosmopolita con 20 e Limojon de Sainct-Didier con 18. Gli altri autori seguono con numeri decisamente inferiori. È comunque dal Filalete e dal Cosmopolita (o Sendivogio se si preferisce) che sarà tratta la maggior parte dei termini usati e anche la struttura simbolica della Grande opera. Vediamola brevemente.
Da una reazione iniziale di misti imperfetti si ottiene una materia particolare, detta materia prima. È orrenda, fetida, sgradevole, assolutamente inutile se non per l'opera alchemica. È chiamata Satana, drago nero e coperto di scaglie, libro chiuso, materia lebbrosa, Vergine Nera, caos nero, primo caos, vaso scaglioso, sostanza primitiva che la natura offre all'artista all'uscita della miniera, la nostra roccia, magnesia, vecchia quercia cava, capasanta o conchiglia di san Giacomo.
Occorre ora l'ausilio di un secondo corpo misterioso detto fuoco segreto o filosofico, che ha un aspetto salino, si trova nascosto nel ventre di Ariete ed è, precisa l'adepto, una materia molto comune che ci pare semplicemente utile. Lo chiama anche, con un termine che risale al Cosmopolita e che fu accolto con estremo favore da tutti gli autori successivi, acciaio. È l’agente, la verga, il bastone, la bacchetta, lo scettro, il caduceo, l'asta di giavellotto, il dardo.
Basterà colpire rudemente e per tre volte questa roccia... per vederne scaturire l'acqua misteriosa che contiene.
Questa sarà il mercurio comune, primo dissolvente, leale servitore, spirito della magnesia, acqua viva.
Interrompiamo per un attimo questa analisi per notare che per queste operazione si fa più volte riferimento all'atto di Mosè quando, colpendo la roccia con il bastone, fa sgorgare acqua per gli assetati (Esodo: 17,5; Numeri: 20,8). Non è un simbolismo comune in Occidente. Lo troviamo invece nella tradizione islamica. Riporto qui, nella traduzione di Corbin, un passo del commento di Jaldakî, un alchimista iranico del XIV secolo, al “Libro delle sette statue” attribuito ad Apollonio di Tiana:
Quando la Roccia è colpita con la Chiave Sublime che è il bastone di Mosè, la roccia prorompe di splendore, e ne sgorga l'acqua, che è un’acqua più bianca del latte, più dolce del miele. Occorrono lunghe dita per la Chiave che è il bastone di Mosè, ed esso racchiude misteri sublimi, di cui Dio ha fatto scendere il segreto su Adamo… Non vi sono dubbi sul fatto che la fonte dell'acqua della Nobile Pietra sgorghi dal Cielo.
In proposito ne “Le dimore filosofali” Fulcanelli fa una dichiarazione di estrema importanza:
Dio vieta all'uomo di penetrare il mistero della sua [del mercurio comune] confezione. Tutti i filosofi ignorano, e molti lo ammettono, in che modo le materie iniziali messe in contatto, reagiscono, si interpenetrano, si uniscono infine sotto il velo di tenebre che avvolge dall'inizio alla fine gli scambi intimi di questa singolare procreazione.
Questo mercurio è anche la stella che si ottiene alla fine del pellegrinaggio di Compostella (compos stellae). È l'agente dell'Opera, senza di cui non si può ottenere nulla, così importante che da lui - Mercurio, Hermes - tutta la filosofia ermetica, cioè mercuriale, ha preso nome.
Da qui, come dice la Tavola di Smeraldo, partono infinite applicazioni. Dice ancora Fulcanelli in un passo che va meditato:
Le innumerevoli proprietà, più o meno meravigliose, attribuite in blocco dai filosofi alla sola pietra filosofale, appartengono ciascuna alle sostanze sconosciute ottenute partendo da materiali e i corpi chimici, ma trattati secondo la tecnica segreta del nostro magistero.
Il nostro adepto comunque, seguendo la più pura e classica tradizione occidentale, prosegue con la pratica che conduce alla pietra trasmutatoria. Per questo scopo esistono varie alternative definite in prima analisi via “lunga o breve”, o “umida o secca”. Non c'è nessun motivo per pensare che le due distinzioni siano identiche e sovrapponibili, e ognuna può avere delle ulteriori specificazioni.
Prescindendo da queste particolarità, l'obiettivo è il medesimo, per cui ne possiamo parlare in termini unificati. Si tratta di aggiungere al mercurio comune uno zolfo vivo, definito metallico. È proprio in un metallo, o almeno in qualcosa che ne può assumere la definizione, che Fulcanelli ci invita a cercarlo. Si tratta di aprire questo metallo, il secondo libro chiuso, detto anche oro, oro filosofico, oro non volgare, e di estrarne la parte viva e attiva. Operazione - in realtà insieme di operazioni - detta anche rincrudazione, quella in cui si uccide il vivo per rianimare il morto, che non è evidentemente una vera rianimazione di un metallo morto, ma, come già detto, l'estrazione del suo zolfo e la sua unione con il mercurio. Dice l’Adepto:
Grazie alla dissoluzione del corpo metallico per mezzo dell'acqua viva, l’artista entra in possesso del mercurio filosofico.
Infatti così si chiama il corpo misterioso che si ottiene, cui si attribuiscono vari altri nomi: mercurio dei saggi, materia prossima dell’Opera, umido radicale dei metalli, seme dei metalli, acqua permanente, sale di saggezza, Rebis, acqua dei due campioni, mercurio doppio, alambicco dei saggi, sale dei saggi, pietra angolare dell’Opera, pietra dei filosofi, composto, amalgama filosofico.
Siamo giunti così alla conclusione dell’Opera, o alla sua terza fase se si preferisce. Inizia cioè la cosiddetta cottura, che conduce all’ottenimento di una prima Pietra. Questa, ridissolta più volte nell’acqua, viene moltiplicata in quantità e qualità. Segue la fermentazione con oro o argento, volgari e comuni, che la trasforma in polvere di proiezione, e, infine, se si desidera, la transmutazione di qualunque metallo vile in oro o argento. La Grande Opera fisica è finita.
Mancano in questa succinta descrizione molti dettagli, e, più importante, manca ogni riferimento al fenomeno di attrazione dello Spirito e alla sua corporificazione, che giustifica la stessa alchimia. Come ho già detto, Fulcanelli vi accenna appena. Comunque il mio intento è soltanto quello di fornire al lettore attento delle indicazioni per non smarrirsi nel labirinto ermetico. Delle note che seguono il testo chiariranno meglio certi punti particolarmente importanti.
Come si è raccontato più volte, esisteva un terzo libro che doveva completare la fatica dell’Adepto. Intitolato “Finis Gloriae Mundi”, nasceva da una visione apocalittica che avrebbe dovuto descrivere le ultime fasi di un ciclo giunto alla conclusione.
Fulcanelli pensava che il nostro pianeta fosse destinato a una serie di sconvolgimenti terribili, che lo avrebbero dovuto scuotere ogni 2.500 anni. Questi si sarebbero manifestati in un’inversione dei poli, e in una conseguente distruzione totale ad opera del fuoco di una metà del pianeta, mentre l’altra metà, invasa dall’acqua, avrebbe permesso la salvezza di qualche predestinato. Dopo altri 2.500 anni il fenomeno si sarebbe capovolto, distruggendo la parte relativamente salva, e annegando l’altra. Tra i due cicli, un periodo di 250 anni avrebbe visto soppresse la maggior parte delle leggi fisiche, e i pochi sopravvissuti convivere malamente in una zona prestabilita dalle caratteristiche climatiche singolari.
Egli si sentiva prossimo a questa specie di apocatastasi, e prevedeva a breve l’annichilamento da parte del fuoco per il nostro emisfero. Questa convinzione gli proveniva, sia dalle sue visioni alchemiche, sia da una trasmissione orale che avrebbe avuto la sua origine nell’Ordine del Tempio, che ne lasciò tracce nei graffiti impressi dai Cavalieri sulle pareti delle celle in cui furono imprigionati a Chinon. Da ciò la grande curiosità su questo testo che - questo interessava e forse ancora interessa - avrebbe tra l’altro indicato dove sarebbe stato il luogo benedetto della salvezza, l’Arca, per dargli il suo nome tradizionale. Non lo sapremo mai. Quando Fulcanelli riprese il testo per distruggerlo, non si sa se perché lo considerasse ormai superato dalle conoscenze acquisite, o perché troppo esplicativo, poche pagine disperse rimasero a Canseliet. Alcune furono in seguito pubblicate alla fine de “Le Dimore Filosofali”, in una successiva edizione. Una, conservata a parte, riportava una specie di indice sinossi dell’opera. Dopo che Jean Laplace decise di rivelarla sulla sua rivista, non c’è motivo perché anche i lettori italiani non la conoscano. È la seguente:
- Cap. I. La decadenza della nostra civiltà e il deterioramento delle società umane. Incredulità religiosa e credulità mistica. Effetti nefasti dell’insegnamento ufficiale. Abuso dei piaceri per timore dell’avvenire. Feticismo alla nostra epoca. Simboli più potenti di un tempo nella concezione materialista. Incertezza del domani. Sfiducia e diffidenza generalizzate. La moda e i suoi capricci rivelatori. Gli iniziati sconosciuti governano da soli. Il Mistero pesa sulle coscienze.
- Cap. II. Testimonianze terrestri della fine del mondo. Le quattro Età. I cicli successivi sigillati negli strati geologici. Fossili. Flora e fauna scomparse. Scheletri umani. Asiatide. Monumenti dell’umanità detta preistorica. Cromlech. Candeliere delle tre croci.
- Cap. III. Le cause cosmiche dell’inversione dei poli. Il sistema di Tolomeo. L’Almagesto. Errore del sistema di Copernico dimostrato dalla stella polare. Precessione degli equinozi. Inclinazione dell’eclittica. Variazioni inesplicabili del polo magnetico. Ascensione solare allo zenit del polo e ritorno in senso contrario che provoca il rovesciamento dell’asse, il diluvio e la fusione alla superficie del globo.
Bisogna ammettere che alcuni di questi titoli sono molto stimolanti, e ci resta il rimpianto di non poterne conoscere lo sviluppo, anche perché - si pensi al fenomeno contemporaneo della moda - dovevano esserci delle intuizioni non comuni.
Restano due enigmi in questo testo, di cui devo parlare.
Il primo non mi risulta sia mai stato notato. Proprio alla fine, premesso all’ultimo capitoletto, un breve motto latino attribuito a Zoroastro, dice: Scire. Potere. Audere. Tacere. Ora, “potere” non è parola latina, ma italiana. Come può essere sfuggita a un erudito come Fulcanelli? E a un latinista appassionato come Canseliet? O in questo presunto errore si nasconde un messaggio, un’indicazione?
Già altrove, nel mio commento alle opere del Filalete, ho parlato di un manoscritto italiano giunto fortunosamente sino a me, precedente come data al Mistero delle Cattedrali, che riporta in testa il sigillo templare dell’Adepto, e in una pagina successiva questo stesso motto, più esteso e sviluppato. Manoscritto che commenta l’opera maggiore del Filalete nella versione di Lenglet Dufresnoy, piuttosto scorretta rispetto all’originale latino, che però è l’unica che Fulcanelli utilizza e cita. Una prova di un collegamento con un gruppo ermetico italiano, anzi romano? La testimonianza dell’eventuale maestro e iniziatore dell’Adepto francese? Certo, anche lo pseudonimo scelto – Fulcanelli - ha un suono piuttosto italico, ma non mi pare il caso di andare oltre nelle ipotesi, anche per non turbare troppo i nostri amici di Francia, così fieri e patriottici anche quando si tratta di Alchimia.
Il secondo enigma si avvia a compiere quasi un secolo di vita.
Nella prima prefazione Canseliet scriveva:
So, non per averlo scoperto io stesso, ma perché l’Autore me lo ha confermato più di dieci anni fa, che la chiave dell’arcano maggiore è data senza alcuna finzione da una delle figure che illustrano l’opera. Questa chiave consiste molto semplicemente in un colore che si manifesta all’artista sin dalla prima operazione…
Negli anni ho sentito le più curiose spiegazioni di questo passo, tutte rivolte all’osservazione delle due tavole evidentemente colorate. Nessuno, o ben pochi, si sono accorti dell’esistenza di una terza figura a colori, o l’hanno esaminata.
Occorre una premessa. Secondo alcune teorie, che Fulcanelli condivideva, l’araldica affonda le sue radici nell’alchimia e nella cabala ermetica. La creazione di un blasone o i modi per leggerlo, anzi si dovrebbe dire per cantarlo, seguono regole rigide che veramente sembrano nate dalla più pura operatività ermetica. Aggiungo che per la necessità di rappresentare uno stemma anche in bianco e nero, sin dall’inizio si stabilirono convenzioni che lo permettessero, dando un senso al tratteggio orizzontale, verticale, al punteggiato e così via.
Ora se noi andiamo alla fine del libro, troviamo un blasone che proverò a leggere secondo l’antico e ormai desueto costume:
Troncato di rosso e d’oro, all’ippocampo d’oro dell’uno all’altro accompagnato in capo da una spiga d’orzo, timbrato da elmo di cavaliere crociato ornato di due lambrecchini, con impresa d’anima che dice uber campa agna.
In questa figura dipinta secondo le regole araldiche c’è un unico colore, il rosso, dato che l’oro è metallo e non colore. Se si osserva poi lo stemma, con lo scudo cosiddetto alla francese, appare chiaramente la rappresentazione di un crogiolo visto in sezione verticale, dove gli svolazzi sono i fumi che escono al momento del massimo calore nel forno. Questa dunque è la prima operazione di alchimia, come diceva Canseliet, alla fine della quale deve manifestarsi quel rosso tanto misterioso e importante da essere definito arcano maggiore dell’Arte, che sovrasterà l’oro, o meglio un’acqua dorata, più o meno nelle proporzioni che qui si vedono. La divisa si traduce facilmente se si tien conto che campa è ablativo di campas: l’agnella resa feconda dall’ippocampo. Descrive l’obiettivo intimo che si è raggiunto.
Alla fine di questa breve introduzione, resta il dubbio che sia un atto di presunzione osare un’esegesi, delle annotazioni, a un testo che ad alcuni appare come Parola Divina. Eppure, a quasi un secolo di distanza dalla sua stesura, mi pare che all’opera magistrale di Fulcanelli, proprio perché merita a pieno diritto di essere inclusa tra i più grandi classici dell’Alchimia, dovesse come a questi essere attribuito l’onore che a quelli viene di norma tributato: quello cioè di un’analisi e di un commento, cui spero seguiranno altri, più riflessivi e più accorti del mio. D’altra parte, come rispose Canseliet di fronte al mio stupore per certe rivelazioni fatte ne “L’Alchimia spiegata sui testi classici”, dato che non si è fatto vivo nessuno a protestare, immagino che anche altrove non si siano espresse grandi obiezioni.
Non nobis Domine…
Paolo Lucarelli